Da cavallo si cade. Ce l’hanno sempre detto tutti.
A me è stato detto fin dalle mie primissime lezioni con la mia istruttrice di base, poi me l’hanno mostrato in maniera impeccabile tutti i cavalli che ho avuto. Perché nessuno ti salva e non c’è modo per evitarlo.
Un vecchio proverbio dice che si diventa un cavaliere/amazzone quando si è caduti almeno 100 volte. Beh, ad occhio e croce, io un’amazzone ancora non sono diventata dopo ben 26 anni di “onorata carriera hobbistica”. E ad oggi continuo a dire “per fortuna”.
Io stessa da istruttrice, nei primi incontri con i nuovi allievi ed i loro genitori, chiarisco fin da subito che da cavallo si cade. Così come hanno fatto con me. Perché cadere spaventa, cadere è far impattare al suolo il corpo, le certezze, l’orgoglio. Non c’è una sola cosa positiva nel “cadere”, se non imparare dai propri sbagli quando di sbaglio si sia effettivamente trattato.
E spaventa proprio tutti… spaventa noi istruttori perchè comunque abbiamo a cuore la salute dell’allievo, spaventa l’allievo che molte volte poi non viene più a lezione, spaventa soprattutto i genitori che vedono i loro figli volare da una altezza di almeno 160 cm e schiantarsi per terra, anch’essi con la paura che il figlio si sia fatto male. A volte anche i cavalli si spaventano: li vedi fermarsi con gli occhi sgranati e domandarsi “perchè tu sei lì giù?”.
Quindi, delineato questo, c’è da sottolineare che la maggior parte delle cadute sono semplici botte, con relativi lividi e contusioni da cui ci si rialza solo con gli occhi lucidi per la vergogna e i pantaloni sporchi di sabbia. Poche volte, per fortuna, i danni sono più gravi.
Un bravo cavallo (che sia questo da scuola o privato) potrà in effetti sempre tutelarci da situazioni spiacevoli e che ci mettono in difficoltà, ma questo spesso non basta a “salvare il fondoschiena”. A volte si tratta di sfortuna, a volte di un inciampone, a volte di uno sbilanciamento, a volte di un errore di valutazione. Limitare il più possibile le probabilità di caduta fa parte della nostra continua ricerca e tutela verso gli allievi, ma quello che mi ha lasciata sorpresa ma piacevolmente colpita è stato quando ho letto il libro di Peder Fredricson “Six Feet Above”.
Il campione olimpionico descrive i suoi anni della giovinezza in cui, insieme a suo fratello, usavano i pony del nonno per montare a pelo e sperimentavano il loro senso di equilibrio e bilanciamento senza nessuno che gli desse indicazioni. Chiaramente le cadute erano all’ordine del giorno, ma questo gli ha permesso di stimolare l’assetto e sentirsi un tutt’uno con il cavallo “entrando” a contatto diretto con i suoi movimenti naturali. Credo che vederlo in sella sia pura poesia, la fusione tra uomo e cavallo.
Ecco, noi tutto questo non potremmo mai farlo. In primis perchè avremmo pochissimo clienti con questa politica e poi perchè chiaramente verremmo denunciati per negligenza in riferimento alla mancanza di sicurezza. Peró poi di campioni e talenti così non ne nascono più…
Di cadute da cavallo ne ho viste tantissime; con un po’ di esperienza ti rendi subito conto di quali siano quelle pericolose e in cui il cavaliere si possa essere fatto effettivamente male. Poi speri sempre che si rialzi.
Non ci sono parti del corpo più soggette a traumi, l’incidenza è molto varia. C’è da dire che oggi, con gli ottimi sistemi certificati di sicurezza, abbiamo sempre più la possibilità di rialzarci con magari solo qualche graffio.
In primis il casco (o Kep) che deve essere di buona qualità e con la protezione della nuca e ancora meglio intorno alle orecchie. Poi il parachiena (o tartaruga) che viene sempre di più prodotto da chi fa le protezioni per i motociclisti e che ripara tutta la colonna vertebrale se indossato come un gilet. Lo stadio avanzato è l’airbag: un sistema che si aggancia alla sella e che quando viene tirato in fase di “decollo” (perdonatemi la metafora ironica) si gonfia come quello della macchina e ripara dorso, collo e costole.
Nessuno ha ancora mai pensato alle gambe… se non con pantaloni con grip che servono per aderire meglio alla sella e tentare di prevenire leggermente la caduta.
Si stanno facendo ottimi passi in avanti in materia di sicurezza e possiamo ancora migliorare!
Se penso invece a quando ho iniziato a montare io… il caschetto era di plastica ricoperto di velluto, lo usavano solo i minori mentre gli altri non ci pensavano neanche: faceva molto figo montare con i capelli al vento! Non si parli poi di paraschiena e altri ausilii…
Ora anche gli istruttori montano più o meno tutti con il kep e usano l’airbag, anche per lavorare in piano. Perchè si sa, non si cade mica solo saltando. A volte basta davvero davvero poco. Si cade al passo (una tra le peggiori cadute di cui io abbia mai sentito è stata durante una passeggiata), si cade trottando, galoppando e saltando. Si cade in passeggiata, si cade domando puledri, si cade anche scendendo da cavallo a volte.
La cosa bella? Si puó reagire in tanti modi a seconda del carattere. Io personalmente ho sempre vissuto la caduta come una sconfitta personale, come l’aver mostrato a tutti che non ero brava, che non ero poi così perfetta e che avevo commesso un errore. Questo mi ha sempre logorata dentro, il mio orgoglio è sempre stato ferito più del mio corpo (visto che non ho mai avuto grossi traumi… fino ad ora!). Non sono mai riuscita a farci una risata su. Con gli anni le cose cambiano, forse perchè non abbiamo più bisogno di dimostrare nulla a nessuno, forse perchè non la si prende più tanto seriamente; forse perchè, a volte, il modo in cui accadono le cose ti fa pensare che non puoi controllare tutto (men che meno un quadrupede di 600kg sotto al tuo sedere), forse perchè ti rendi conto che ci sono così tante cose serie e difficili a questo mondo che se si cade e non ci si fa male vale davvero la pena di farci una risata su.
O forse semplicemente è che, anche quando ti fai male, anche molto molto male, l’unica cosa che ti viene da pensare è quello che dovrai fare per riprendere il prima possibile, per rimetterti in sesto velocemente e risalire in sella. Un po’ ammaccata, poco allenata, un po’ titubante, un po’ con la paura di fare un danno ancora peggiore, ma con la consapevolezza che quel mondo proprio non lo vuoi lasciare. Che quella felicità ripaga di ogni cosa da dover affrontare. Che quella è davvero l’unica cosa per cui tutto vale la pena.